Con The Flowers of Srebrenica, non ho voluto creare uno spettacolo che semplicemente ricordasse il genocidio in Bosnia, ma uno che invitasse all’ascolto. All’ascolto profondo. Alla comprensione di come una storia, radicata in un luogo, un tempo e un popolo specifici, possa attraversare i confini e parlare a tutti noi.

Il libro mi aveva colpito per il suo potente invito a vedere Srebrenica non come un’aberrazione, ma come parte di uno schema tragico e ricorrente: una tragedia già accaduta, che continua ad accadere. Una lapide al Memoriale di Srebrenica recita: “Mai più”. Ma dal 1995, genocidi sono avvenuti — e continuano ad avvenire — in tutto il mondo. Dunque ci chiediamo: l’umanità può cambiare? E, più urgentemente: come può la memoria andare oltre la commemorazione e trasformarsi in un atto di resistenza?
Ma il nostro spettacolo non è un adattamento. Il romanzo di Aidan Hehir è stato un punto di partenza, una scintilla per un percorso che ci ha portato oltre la singola storia — forse un po’ scontata — di un uomo occidentale in visita in un paese straniero che vive un momento di “risveglio”. Aidan per noi rappresenta il pubblico a casa: tutti coloro che guardano — con orrore, disperazione o indifferenza — le tragedie degli altri sui propri schermi. Chi le studia, le analizza, le trasforma in dati, libri, siti… ma raramente pensa che ciò che analizza possa un giorno accadere anche a sé. Us and them. Noi e loro.

Per un momento, nel cimitero del Memorial Centre, Aidan riscopre il suo essere irlandese. Sente una comunione profonda con le vittime, persino una vergogna per aver pensato che i suoi studi potessero rendere giustizia al dolore infinito dei superstiti. Ma alla fine, l’unica cosa che riesce a fare è comprare un souvenir. Lasciare una mancia. E tornare a Londra, al suo bel lavoro e alla moglie insegnante.
E allora, a cosa è servito quel viaggio?
Per noi è servito come veicolo per creare uno spettacolo sulla solidarietà. Sull’eterno ciclo di violenza che continua a ripetersi. E che — forse, se siamo fortunati — può essere interrotto solo creando una vera empatia tra chi ha subito e chi guarda.
Questa universalità doveva essere il cuore pulsante dello spettacolo. Per sottolinearla, sapevo che serviva una cornice drammaturgica (e anche fisica). Sono partita da due immagini forti: la terra e un coro di donne.

La terra, perché custodisce i corpi dei morti ma anche i semi della vita futura.
Il coro, perché la guerra è tragicamente binaria, e troppo spesso sono le donne a dover sopravvivere, a ricordare, a tramandare la memoria.
Il nostro coro è composto da attrici provenienti da tre paesi che hanno vissuto guerre recenti (Rwanda, Bosnia e Ucraina), ma rappresenta anche decine di altri paesi — Yemen, Sudan, Palestina, Myanmar… l’elenco è tragicamente lungo. Portano la storia di Aidan oltre l’individuo. Sono sopravvissute, testimoni, narratrici. Esistono fuori dal tempo e dallo spazio, come le Moire greche o gli Yūrei giapponesi. Guidano il pubblico, sfidano Aidan, interrompono la narrazione, creano uno spazio per la riflessione. Portano anche un umorismo nero e, come le illustrazioni nel libro, offrono un controcanto al testo.

Il viaggio di Aidan e Mustafa — la sua guida, il sopravvissuto, l’ex soldato — nella nostra versione è solo una delle tante storie che il nostro coro di donne avrebbe potuto narrare. È il sandalo di Mustafa, ritrovato nella terra, a far nascere il racconto. Che oggi tocca la Bosnia, Aidan e la sua guida. Domani toccherà un’altra guerra, un’altra storia.
All’interno di questo mondo, Mustafa non è più solo una guida turistica. Diventa una figura liminale, evocata dal coro. Un sopravvissuto che accompagna Aidan (e noi) in questo viaggio.
Insieme, il visitatore, il sopravvissuto e il coro trovano un terreno comune, dove il peso della memoria può essere condiviso, portato insieme, e offerto al pubblico.
Il nostro spettacolo non pretende di dare risposte semplici. La disperazione che molti di noi provano guardando le atrocità scorrere sugli schermi non può essere cancellata da un singolo momento teatrale. Ma può dare inizio a qualcosa. Una crepa. Un seme.

Offriamo al pubblico un po’ di terra da coltivare.
Cosa ne faranno, spetta a loro.
Come compagnia nata dal desiderio di rappresentare artistə con esperienze di migrazione, sradicamento e alterità, questo è per noi un lavoro profondamente significativo.

 

I fiori di Srebrenica

A LegalAliens Theatre co-production with Sarajevo War Theatre SARTR
in association with MESS Festival
Based on the novel by Aidan Hehir

Cast: Selma Alispahić, Taz Munyaneza, Valeriia Poholsha, Edin Suljić, Jeremiah O’Connor
Direction: Lara Parmiani
Dramaturgy: Lara Parmiani in collaboration with Becka McFadden
Assistant Director: Angela Poulima
Movement Direction: Becka McFadden
Set and Costume Design: Isabella Van Braeckel
Projection Design: Edalia Day
Sound Design: Jovana Backovič
Lighting Design: (tbc)
Producer: Amy Sze
Cultural Consultant: Edin Suljić
Original illustration: David Frankum

Orario:
21:00
Date:

14/11/2025

15/11/2025

SCUOLA: 14/11/2025 ore 10:00

Artista:
Legal Aliens Theatre / Sarajevo War Theatre SARTR

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